Bandiere per comunicare un bisogno di pace.

Il potere


Se l'esposizione delle bandiere di pace è un gesto pubblico, possiamo dire che si tratta di un gesto politico? Nel senso di una forma individuale di esercizio del potere, di un tentativo di produzione di cambiamento sociale?


La risposta è sì, ed emerge soprattutto in negativo, dal senso di impotenza che attraversa in modo più o meno profondo i racconti degli intervistati. Il senso di impotenza, in altre parole, ci fa scorgere il desiderio di cambiare le cose, di invertire il corso degli eventi, anche se la consapevolezza degli scarsi margini di azione dei singoli cittadini era abbastanza diffusa fin dall'inizio.

Il senso di impotenza come tema ricorrente ci induce a riflettere su diverse cose.


Innanzitutto impotenti perché la guerra è scoppiata comunque, perché malgrado le bandiere in Italia e nel mondo, malgrado le manifestazioni in tutte le città i bombardamenti sono iniziati, i governi di diversi Stati hanno aderito, in modi diversi. Anche l'Italia, seppur forse con meno entusiastico interventismo rispetto agli esordi (forse, forse).

Ma, ci chiediamo noi che ascoltiamo questi racconti, l'obiettivo delle bandiere dai balconi era veramente fermare la guerra (decisa dagli USA)? O forse l'obiettivo più realistico era un altro, o altri: dare un segnale forte del dissenso diffuso nella società civile, che mitigasse le posizioni di appoggio agli Stati Uniti o rendesse meno improbabili strade negoziali; ecc. .

Forse allora a partire da una maggiore chiarezza sull'obiettivo della campagna, sarebbe stato possibile, anche per i singoli, misurarne l'efficacia, il successo o l'insuccesso, e quindi dare risposta anche al senso di impotenza, molto diffuso ma forse non completamente giustificato. In altre parole, c'é forse una difficoltà a valorizzare i risultati della campagna ta i singoli che hanno aderito, che comunque quasi paradossalmente continuano a esporre le bandiere, e non danno segno di volerle ritirare.


A un livello più profondo e generale, il senso di impotenza si aggancia a una sfiducia nelle possibilità di influire sulle scelte politiche, alla percezione di uno scollamento tra istituzioni (che vanno per la loro strada senza ascoltare quanto avviene in basso) e società civile, alla percezione della crisi (per non dire assenza) della democrazia. In un caso, degno di nota, un intervistato sottolinea come il movimento delle bandiere sia anche una richiesta alle istituzioni di assunzione di responsabilità.

In questa prospettiva, le bandiere dai balconi sono allora un gesto possibile tra i pochi gesti possibili. Sono esposte dalle case, luoghi privati dove la manifestazione del dissenso non può essere impedita o celata.

L'esposizione delle bandiere può essere anche un piccolo gesto di disobbedienza, quando esce dai confini ristretti della casa: nei negozi, nelle scuole, dove si entra in uno spazio pubblico, condiviso con altri che forse non la pensano nello stesso modo. Dove le istituzioni impongono delle regole anche alla manifestazione delle opinioni.



Questo ci porta all'ultima riflessione in relazione al potere, ossia al rapporto tra autorità e obbedienza, tra autorità e coscienza. Disobbedire è (ancora?) una virtù? Oppure obbedire é tornato ad essere (o è sempre stato) un gesto scontato, naturale, quasi non giudicabile? Nel caso dei soldati americani sembra che sia così, almeno secondo alcuni degli intervistati, la responsabilità delle scelte allora è del Potere (Bush, nella fattispecie), mentre i soldati sono "costretti" ad obbedire, costretti dalle circostanze, dalla necessità di trovare un lavoro, di sopravvivere.

Che spazio viene allora riconosciuto all'obiezione di coscienza, al rifiuto di obbedire a partire da un moto interiore, individuale, ma proprio per questo forse irriducibile?



I testi delle interviste relativi a questo argomento



A questo punto, alcune domande:


Ha ancora senso parlare di una assunzione di responsabilità dei singoli individui (l'obiezione di coscienza) oppure il potere e le sue prassi sono da ritenersi collettivi? In altre parole, esiste una cultura della disobbedienza individuale come prassi politica, anche se atipica, in quanto non si pone il problema dell'efficacia dell'azione, ma si fonda sulla necessità di una coerenza con la coscienza? Le bandiere dai balconi possono allora essere considerate un piccolo gesto di disobbedienza, quindi un atto di coscienza individuale, con un senso interiore, che trova comunque forza nella moltitudine dei gesti individuali?


Il senso di impotenza dipende forse dalla difficoltà a porsi obiettivi politici chiari, su cui commisurare l'efficacia di una campagna come quella delle bandiere di pace dai balconi?


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